“Venezuela” di Batsheva Dance Company cattura la platea al Teatro Grande di Brescia


“Venezuela” di Batsheva Dance Company cattura la platea al Teatro Grande di Brescia
Venezuela-mishkan

Ottanta minuti di spettacolo dal quale si esce diversi, trascinati dalle emozioni che gli straordinari danzatori di Batsheva Dance Company trasmettono in un replicarsi coreografico (quaranta minuti di movimenti identici per due volte), con un miscuglio di pensieri, sensazioni e tante domande aperte. Sì perché non basta capire con la testa, quando si guarda Venezuela, creazione del 2017 del coreografo Ohad Naharin,  vincitore del Grand Prize 2019 della critica francese, che ieri sera ha concluso la breve tournée italiana, al Teatro Grande di Brescia con una meritata ovazione finale in un teatro al colmo della sua capienza. Bisogna lasciarsi condurre dal flusso della danza che travolge, senza sosta, tra balli sudamericani e di gruppo in un crescendo angoscioso di suoni fino all’ecatombe dove tutto si spezza, muore, finisce. Per poi ricominciare, come prima. Si alza il sipario e subito si è catturati dal gruppo di danzatori, di spalle, che camminano lenti, accompagnati dai canti gregoriani, verso il fondo fino a quando una danzatrice si ferma, in posa, il braccio alzato, la mano destra piegata, l’altra sul fianco. Le coppie si formano e si disfano con la disinvoltura dei balli latini, la musica sacra sembra un richiamo lontano, dissociato dalla vita reale in cui si muovono i danzatori, troppo concentrati sulla loro umanità. Le movenze fluide dei fianchi, le corse irresistibili dei corpi verso un desiderio di libertà mai appagato, le movenze lente di donne amazzoni che, a cavalcioni sulle schiene dei loro uomini, cammelli silenziosi a testa bassa, animano lo spazio con la loro presenza misteriosa, leggiadra, evocatrice di una femminilità potente ma anche temibile dalla quale fuggire. Le litanie sacre scandiscono il tempo ma sembrano inascoltate , spezzate dalla volgarità di parole gridate al microfono sul rap di The Notorious B.I.G. E’ un’umanità complessa, alla ricerca di un’identità socio-culturale, con drappi esibiti in fila orizzontale, prima tutti bianchi e poi con le bandiere di nazioni sconosciute, in un susseguirsi di movimenti inarrestabili fatti di prese, volteggi, allungamenti delle braccia e delle gambe, con corpi che scodinzolano nello spazio secondo un’energia molecolare nascosta e sublime. Venezuela, è un viaggio nel cuore dell’umanità tra richiami mistici e bassezze terrene, con intermezzi di beata fluidità dove tutto sembra scorrere piacevolmente negli abbracci delle coppie che ballano passi a due lievi e scattanti o si scatenano nel rock duro dei Rage Against the Machine. C’è tutta la nostra umanità contemporanea, impazzita, gioiosa ma anche ciecamente sorda ai richiami del sacro in una visione pacificata e mistica, ci sono le lotte e gli schianti, uno specchio vivo del mondo in cui viviamo dove la “teoria dei corsi e dei ricorsi storici” di Giambattista Vico sembra più che mai attuale.

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Ottanta minuti di spettacolo dal quale si esce diversi, trascinati dalle emozioni che gli straordinari danzatori di Batsheva Dance Company trasmettono in un replicarsi coreografico (quaranta minuti di movimenti identici per due volte), con un miscuglio di pensieri, sensazioni e tante domande aperte. Sì perché non basta capire con la testa, quando si guarda Venezuela, creazione del 2017 del coreografo Ohad Naharin,  vincitore del Grand Prize 2019 della critica francese, che ieri sera ha concluso la breve tournée italiana, al Teatro Grande di Brescia con una meritata ovazione finale in un teatro al colmo della sua capienza. Bisogna lasciarsi condurre dal flusso della danza che travolge, senza sosta, tra balli sudamericani e di gruppo in un crescendo angoscioso di suoni fino all’ecatombe dove tutto si spezza, muore, finisce. Per poi ricominciare, come prima. Si alza il sipario e subito si è catturati dal gruppo di danzatori, di spalle, che camminano lenti, accompagnati dai canti gregoriani, verso il fondo fino a quando una danzatrice si ferma, in posa, il braccio alzato, la mano destra piegata, l’altra sul fianco. Le coppie si formano e si disfano con la disinvoltura dei balli latini, la musica sacra sembra un richiamo lontano, dissociato dalla vita reale in cui si muovono i danzatori, troppo concentrati sulla loro umanità. Le movenze fluide dei fianchi, le corse irresistibili dei corpi verso un desiderio di libertà mai appagato, le movenze lente di donne amazzoni che, a cavalcioni sulle schiene dei loro uomini, cammelli silenziosi a testa bassa, animano lo spazio con la loro presenza misteriosa, leggiadra, evocatrice di una femminilità potente ma anche temibile dalla quale fuggire. Le litanie sacre scandiscono il tempo ma sembrano inascoltate , spezzate dalla volgarità di parole gridate al microfono sul rap di The Notorious B.I.G. E’ un’umanità complessa, alla ricerca di un’identità socio-culturale, con drappi esibiti in fila orizzontale, prima tutti bianchi e poi con le bandiere di nazioni sconosciute, in un susseguirsi di movimenti inarrestabili fatti di prese, volteggi, allungamenti delle braccia e delle gambe, con corpi che scodinzolano nello spazio secondo un’energia molecolare nascosta e sublime. Venezuela, è un viaggio nel cuore dell’umanità tra richiami mistici e bassezze terrene, con intermezzi di beata fluidità dove tutto sembra scorrere piacevolmente negli abbracci delle coppie che ballano passi a due lievi e scattanti o si scatenano nel rock duro dei Rage Against the Machine. C’è tutta la nostra umanità contemporanea, impazzita, gioiosa ma anche ciecamente sorda ai richiami del sacro in una visione pacificata e mistica, ci sono le lotte e gli schianti, uno specchio vivo del mondo in cui viviamo dove la “teoria dei corsi e dei ricorsi storici” di Giambattista Vico sembra più che mai attuale.

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