“Xenos” di Akram Khan un viaggio viscerale negli inferi e risalita


“Xenos”  di Akram Khan un viaggio viscerale negli inferi e risalita
"Xenos" di Akram Khan Foto Jean Louis Fernandez

Un piano inclinato sporco di terra, lunghe corde, cuscini indiani sul pavimento con due percussionisti che battono le mani sui loro tamburi intonando musica carnatica indiana e un uomo solo, sperduto che danza con il suo corpo in abito lungo, le mani che volteggiano con le braccia, con movenze del kathak classico, due sonagli tintinnanti ai piedi. Apre così Xenos , del coreografo anglo-indiano Akram Khan, (accolto con ovazioni al Festival Romaeuropa e ieri sera a Torinodanza, alle Fonderie Limone Moncalieri), un assolo che ripercorre la violenza di un soldato, un sepoy indiano, subìta nella Prima Guerra Mondiale; un eroe dal volto sporco di terra, le mani consunte, aggrappate alle corde con le quali cerca di salire la montagna e che si portano via, piano piano sedie, tappeti, cuscini, tutti oggetti di vita ordinaria. Un pezzo di straordinaria poesia, con le calde luci di Michael Hulls e la drammaturgia suggestiva e funzionale di Ruth Little sui testi di Jordan Tannahill. Un uomo solo, un naufrago, un Prometeo moderno lotta contro la forza più tenebrosa dell’universo, la guerra che, attraverso la voce dei colonialisti inglesi, emessa da un grande grammofono chiama, uno ad uno, gli uomini destinati al sacrificio. E lui indietreggia, in bilico sull’orlo di un precipizio, con una cima tra le mani accompagnato dalla musica dal vivo dei musicisti posizionati in alto alla scena (violino, contrabbasso, sassofono, percussioni), in un crescendo musicale dai toni apocalittici. Scariche elettriche, spari, blackout di luci, gracchianti rumori si alternano alla struggente “Lacrimosa mozartiana” in un sapiente mix musicale curato da Vincenzo Lamagna. Khan, figura quasi lunare scivola sulla terra, si mescola con essa come a sottolineare il ritorno ineluttabile dell’uomo alla stato di polvere, si sporca il viso, precipita negli abissi dell’esistenza per poi rialzarsi, accompagnato dal canto soave, una nenia con una voce maschile che recita la storia di una madre che perse il figlio ma poi ne arrivò un altro; un ritornello all’infinito che trasforma l’assoluta solitudine in un’armoniosa pace. Dalla montagna scivolano due pigne, poi tre, poi quattro fino a quando la scena è coperta da una cascata di conifere e ci tornano alla mente le esperienze sensoriali del teatro-danza di Pina Bausch intrise di fiori, terra , foglie. In Xenos, Khan esprime il contatto viscerale tra il corpo e la materia con un gusto primitivo mentre mescola, con una fluidità catartica, i movimenti della danza contemporanea a quelli della tradizione indiana. Uno spettacolo da non perdere.

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"Xenos" di Akram Khan Foto Jean Louis Fernandez

Un piano inclinato sporco di terra, lunghe corde, cuscini indiani sul pavimento con due percussionisti che battono le mani sui loro tamburi intonando musica carnatica indiana e un uomo solo, sperduto che danza con il suo corpo in abito lungo, le mani che volteggiano con le braccia, con movenze del kathak classico, due sonagli tintinnanti ai piedi. Apre così Xenos , del coreografo anglo-indiano Akram Khan, (accolto con ovazioni al Festival Romaeuropa e ieri sera a Torinodanza, alle Fonderie Limone Moncalieri), un assolo che ripercorre la violenza di un soldato, un sepoy indiano, subìta nella Prima Guerra Mondiale; un eroe dal volto sporco di terra, le mani consunte, aggrappate alle corde con le quali cerca di salire la montagna e che si portano via, piano piano sedie, tappeti, cuscini, tutti oggetti di vita ordinaria. Un pezzo di straordinaria poesia, con le calde luci di Michael Hulls e la drammaturgia suggestiva e funzionale di Ruth Little sui testi di Jordan Tannahill. Un uomo solo, un naufrago, un Prometeo moderno lotta contro la forza più tenebrosa dell’universo, la guerra che, attraverso la voce dei colonialisti inglesi, emessa da un grande grammofono chiama, uno ad uno, gli uomini destinati al sacrificio. E lui indietreggia, in bilico sull’orlo di un precipizio, con una cima tra le mani accompagnato dalla musica dal vivo dei musicisti posizionati in alto alla scena (violino, contrabbasso, sassofono, percussioni), in un crescendo musicale dai toni apocalittici. Scariche elettriche, spari, blackout di luci, gracchianti rumori si alternano alla struggente “Lacrimosa mozartiana” in un sapiente mix musicale curato da Vincenzo Lamagna. Khan, figura quasi lunare scivola sulla terra, si mescola con essa come a sottolineare il ritorno ineluttabile dell’uomo alla stato di polvere, si sporca il viso, precipita negli abissi dell’esistenza per poi rialzarsi, accompagnato dal canto soave, una nenia con una voce maschile che recita la storia di una madre che perse il figlio ma poi ne arrivò un altro; un ritornello all’infinito che trasforma l’assoluta solitudine in un’armoniosa pace. Dalla montagna scivolano due pigne, poi tre, poi quattro fino a quando la scena è coperta da una cascata di conifere e ci tornano alla mente le esperienze sensoriali del teatro-danza di Pina Bausch intrise di fiori, terra , foglie. In Xenos, Khan esprime il contatto viscerale tra il corpo e la materia con un gusto primitivo mentre mescola, con una fluidità catartica, i movimenti della danza contemporanea a quelli della tradizione indiana. Uno spettacolo da non perdere.

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